Adesso è rimasta solo una tendina. A filet. Una ruche arricciata torno torno e il finto putto tutto traforato, che suona la tromba, solitario.
Nella contrada delle botteghe morte.
Anche lì c’era un piccolo negozio. Dietro la porta, ora pretenziosa: bugnato di legno e pomolo dorato.
Si vendevano scampoli.
Il metro era tatuato sul bancone e le stoffe impilate tutte uguali: le più pesanti sotto, in testa le leggere, sull’unica mensola a parete.
E due vetrine strette. Messe lì, appena un po’ sbiecate, come certe ali che stentano ad aprirsi.
In angolo uno zampillo casalingo di raso e taffetas: dopo tre pieghe rigide, schiumava verso il basso per toccare il fondo, quieto e giallino, di legno compensato.
Vetrine un poco turche, ecco, col vaso di fiori tolto dal salotto.
Eppure.
Eppure il negozietto era il rifugio per giorni di malinconia, paradiso riciclato per borsellini vuoti.
Orfani della pezza intera, un difettino a romperne la grazia, gli scampoli chiamavano in vetrina, catturavano un estro vagabondo. Senza dire bugie. Già in partenza erano un ripiego. Sedativo di bisogni e di speranze, a portata di tasca e fantasia.
Con la stoffa a metro si tien dietro a un sogno che ti guida.
Lo si drappeggia con spreco di misure.
Lo si segue dentro ad un tessuto. Provare e riprovare. Per abitarlo, infine.
E’ l’idea che fa srotolare le pezze, per sentirne musica e fruscio.
All’inizio era il vestito.
Con lo scampolo no.
Lo scampolo, il sogno, lo inventa sul momento e te lo presta.
Un sogno di seconda mano.
Sta tutto lì, nello spazio di centimetri contati.
Da fare uscire da un blocco di pietrisco.
Un sogno a togliere, da saper vedere e farselo bastare.
L’orizzonte e il suo limite, insieme.
Vedrai che bella cosa salta fuori, prometteva la Rosa, piegando e ripiegando un quadrato di fiori provenzali. C’è poca stoffa, ma basta un bel pettino e un’aggiunta alla manica per sotto.
Se per gustare un nettare ci vuole la più aspra sete, cosa sta dietro a una felicità di scampolo…
Quanta soave resistenza alla vita.