“Ve’ chi putina” …
Mi fermai, la mattina che il ginko biloba dei Castellani era così giallo da sembrare un’estate rubata, ma l’aria diceva che anche quella finestra si sarebbe accostata, perché ottobre filava novembre e, in fondo, ci sono giorni in cui non si è tanto sicuri di voler crescere.
Anzi.
Pare che crescere sia tutta una cosa in perdere.
E si ha voglia di restare dentro le parole bambine.
Fermarsi e tacere, perché non c’è niente da dire a una vecchia non di casa tua, solo intravista fra i ricami di una finestra, sullo sfondo di una stanza scura.
“Ve’ dentar, che sono nati i gattini della grigia”.
Erano piccole cose tenere, con la pancia bianca e il dorso azzurro, che facevano il pane fusando contro le tettine gonfie della grigia, buttata su una coperta, vicino alla porta della cucina, tra il secchiaio e il muro.
Era strana una gatta di parto in casa, con l’odore di sudore vecchio su una maglia bagnata, di urina e di latte, e la zuppa vicino, e stracci di pelle di gallina, secchi accapponati.
Si affrettò a buttar giù le briciole dalla tavola, la vecchia, e diede uno scopaccione alla gallina sulla sedia; ma io avevo già visto, e avevo visto anche la conca bassa, di latta, piena di piatti e di posate unte, e la tovaglia macchiata sull’altra tavola, nella stanza vicina, ancora così, dalla sera prima o da chissà quanto tempo.
Tutto nella casa aveva una faccia spiegazzata, di sporco polveroso e appassito.
Roba bella andata a male come l’ottomana, azzurra sotto le macchie, e le cartoline con gli angoli accartocciati, infilate nello specchio della pettiniera dell’ingresso.
Si pensava solo ad andare fuori, a scappare via perché l’aria sembrava piena di santonina, la polvere che in segreto il farmacista preparava per far scappare i vermi dalla pancia dei bambini piccoli.
Forse proprio con il suo odore di noce moscata rancida faceva scappare i vermi.
La ricordavo apposta, quando non volevo mangiare e volevo avere la faccia murata di grigio, per protesta, di fronte a un piatto di pasta puglia, con troppi occhi di brodo.
Si tornava a sentirsi troppo bambini dentro quegli odori di palude, di panni che han preso la pioggia e poi si ritirano in casa, in quelle camere dai quadri grandi e le rose dipinte che pendevano dai muri, sotto il peso dei punti neri di mosca.
Dovette capire il mio schifo, la vecchia, perché non tentò di trattenermi né disse qualcosa.
Solo mise una mano in una certa tasca del grembiule, a scavare in profondità estreme, fra cumuli di sottane sovrapposte.
Ne trasse un uovo.
“To’, è pulito questo”.
Mi avevano insegnato che non si poteva rifiutare un regalo.
Presi l’uovo, che mi sembrò caldo, quasi un uovo di gatta grigia.
Non andai a scuola.
Tornai indietro.
A casa.
Avevo la malinconia.