(divagazioni attraverso una siepe)

C’è un’area che sa un poco di mistero, qui, nella strada stretta che porta alla Coop.
Oltre il cimitero, prima della cascina del glicine bianco e delle galline: un quadrato senza grazia e senza cura, ma, a giocarci, sarebbe il paradiso.
C’è da infrattarsi, lì, e da provar paura, c’è da fare le capanne e tentare scoperte avventurose.
A saperla distinguere, al fondo, s’intravede la villa dello zuccherificio, lasciata in un verde fitto che può essere di tiglio e di platano. Anche di acero negundo.
È terra quasi di nessuno, da quando tutto è in vendita o venduto.
Non è dato sapere.
Non protetta, neppure cintata: solo una siepe che si gonfia a contenere gramigne filate in paglia gialla.
Da qualche giorno, divelta in un punto.
Un buco da bambini, piccolo, incerto, pure malfatto, troppo in vista per un’invasione indebita ed adulta… Ce n’eran quattro, corti corti, che scappavano l’altro giorno.
Allora dicevo in casa: che i bambini tornino a prendersi il paese? A marcarlo, a  pezzarlo a macchie e a strisce, come quando giocavi tu?

Più ci penso, più mi pare che il paese, allora, avesse quartieri di strane geometrie.
Forse di cuore. Forse di vita.
Certo, erano linee d’aria.
Non c’era strada capace di tracciarle con la squadra.
Più che luoghi, erano spiazzi di destini: ceste di bambini ragazzi, che giocavano l’un contro l’altro armati. Con la frutta rubata e recinti violati, nel nome di un nome… Quelli di piazza, quelli delle barche, quelli della caserma, quelli del macello, quelli delle sbarre...
I maschi facevano di questa appartenenza un segno.

Noi bambine del viale si era di piazza, ma si sognava quelli del macello, non i piasaròt, troppo chierichetti, sempre all’oratorio, al massimo il pallone…
Quelli del macello erano giustamente lazzaroni, erano grandi e belli, padroni della ferrovia morta che aveva lasciato eredità di rotaie e di carrello.
E il carrello era più di una bicicletta, quasi più di un moschito o di un garelli.
A pompare con le braccia, si arrivava  dalla stazione porto alla stazione vera, fra orti gentili di frutta con le mani svelte, fra bucati stesi e topinambur.
Tutti si sognava un viaggio sul carrello.
E c’erano fitte sassaiole, sfide a s-ciancul baseball dei poveri, per quel mezzo tecnologico avanzato, postazione per bersagli cercati con cura certosina. A delinquere.
Gli scontri poi finivan lì, perché il bagno della sera, gli schiaffi delle madri sulle gambe, quelli rossi con l’impronta a mano aperta, riportavano tutto come prima.
Era un mondo lavato e leggero a riscendere in strada.
Dopo le otto.
Ma, intanto, prima, ogni angolo del paese era stato preso nel profondo, rovesciato come una tasca e occupato.
Conosciuto con la forza del farci delle cose.
Battuto nel suo tempo, quasi cantato a memoria.
Se ne sapevano orti e cancelli, punti di fuga e di occultamento.
Si sapeva la generosità degli alberi e il grado di pazienza dei padroni.
Si sapevano le rive del Po e i fianchi dell’argine.
Si sapeva la frescura della chiesa dopo una corsa e la mappa dell’acqua viva dove potersi lavare.

Adesso i bambini si telefonano.
Abitano il paese. Non lo vivono.
Per questo la speranza può nascere da un buco nella siepe.