A stare lì, senza sole, con la strada intubata contro il muro, c’era da aspettarsele, le malinconie.

Arrivavano come passeri d’inverno, nella fuliggine di un camino: polvere scura ai muri e un rotolare d’ali litigiose, fino al silenzio.
In certi pomeriggi grigi, come nebbia sciolta nel bicchiere.

Prendevano la moglie, la facevan  smorta, quasi cattiva.
(I capelli tirati sulle tempie, legati con la rabbia, senza filo. Ci provassero, a muoversi, potendo…)
Con la faccia dura, la Carmina puntava sopramani, chiudeva sottopunti, ferrava friseline a gesti secchi, il golf un poco liso attorno al seno.

Intanto, molli, cadevan giù le ore.
Rigavano il collo al campanile coi rintocchi di quarti in sospensione.
Poi, battiti lunghi, un poco strascicati, quasi in attesa di un tempo da vegliare.
Come file di vecchie, in cerca di novene. La chiesa lì, vicina.

Allora lui parlava.
Per stordire la stanza di gesta mai accadute, di soli socialisti pronti all’avvenire, di pesche che gesù neanche si sognava (lucci di denti crudeli pescati a mani vive) e generali, generali grandi, venuti lì, nel vicolo odor del freddo, a cercare di lui.

Con la faccia dura, la Carmina puntava sopramani, chiudeva sottopunti, ferrava friseline a gesti secchi, il golf un poco liso attorno al seno.

Intanto il dolore metteva le sue spine, s’arrampicava su per l’impannata, a fare da cornice alla finestra.
Sulla tavola l’ombra di soldi promessi e di viaggi pensati, fra velina e carta papalona, forbici e gesso da stampi.

Allora lui attaccava con l’orgoglio di quel suo mestiere.
“Cosa si vuol di più… Essere sarti è fare gli architetti. Dare forma alla vita. Bussa il vestito, lì, dentro la stoffa piana: chiede d’uscire e andare. C’è da avere mani di levatrice e testa di chirurgo…Cosa si vuol di più”.
Nell’aria brandiva le sue forbici, don chisciotte su moschito rosso, a guardia dei sogni.
Quasi a tagliare le malinconie.

“Tasi, tasi, tasi par carità”, diceva la Carmina, e la fiducia le sembrava stenta come il cotone d’imbastire.