Me l’ha scritto Giulia, fra i commenti, qualche giorno fa.
La sua bambina  vede un albero sulla fronte della mamma.
Una nuvola scura, un pensiero a grinze, una piega improvvisa mettono radici e rami, agli occhi di chi sa guardare.

Mi ha intenerito questa immagine vegetale che ferma, diventandone stampo, uno stato d’animo di passaggio.

Ho pensato, allora, a quante volte alberi, maternità e infanzia percorrano insieme un tratto di significato e stringano un patto.
Così, senza preavviso, è risalita in superficie una poesia, che se ne stava annidata a far granaio da qualche parte.
E’ di Sergei Esenin.

Là dove il sole sorgendo innaffia
con acqua rossa le aiuole di cavoli,
un minuscolo acero succhia
la verde poppa della madre.

C’è un acero minuscolo “là”, in un punto senza nome e senza estensione, un punto che riassume l’orizzonte e annoda cielo e terra, due “maxima” spaziali, senza soffocare ciò che è infinitamente piccolo ed esile.
Compendiati in un unico ciclo vitale, tornano tutti gli elementi della natura, che rinuncia all’abito da festa per essere soltanto campagna, orto di cavoli, luogo-casa di cura e nutrizione.
E qualcosa accade, infatti.
Arrivano i colori, a rafforzare il senso delle cose.
Il sole presta il suo rosso, ovvero la sua luce.
La terra presta il suo verde, e quindi la morbidezza dell’erba.

Delicati, amorevoli transiti.

Nel dono il sole diventa acqua, la terra diventa madre.

Il “minuscolo acero” entra nel gioco e si fa lattante che succhia dalla “verde poppa” questo fluido passaggio delle qualità, questo cedevole trasmutare degli aspetti.

Assorbono la scioltezza del cambiare, gli alberi.
Sanno essere crocevia di mondi e di scambi.
Come i bambini.
Per questo da loro si lasciano riconoscere, anche su una fronte.

(Per Matilde, la dolce)