Finiti i compiti, accompagnate le amiche di scuola sulla porta, la bambina non sapeva cosa fare perché il tempo passasse con l’ovatta intorno, difeso dai rumori e dagli umori avversi.
Erano solo le quattro del pomeriggio e la mamma ancora a lavorare.
Bisognava aspettare le sei e sperare che la nonna continuasse a dormire, nella stanza appresso alla cucina.
Si erano fatti i compiti in silenzio, con quelle risatine soffocate che sembrano il verso dei pulcini, pur di non svegliarla.
Amiche clandestine dentro la cucina, con l’alfabeto muto e il gioco del mimo per comunicare. Così strano ridere senza voce, ma neanche alle altre piaceva quella nonna che sempre brontolava, che sempre ce l’aveva con qualcuno, specie con il genero, perché se n’era andato, costringendo la figlia a lavorare e lei a tirar fuori la pensione.
Col freddo la bambina non aveva il permesso per uscire: novembre portava il buio presto, bisognava rimanere in casa, ma a stare lì, senza sole, con la strada intubata contro il muro, c’era da aspettarsele, le malinconie.
Arrivavano come passeri d’inverno, nella fuliggine di un camino: polvere scura ai muri e un rotolare d’ali litigiose, fino al silenzio. In certi pomeriggi grigi, come nebbia sciolta nel bicchiere.
Allora preparava la cartella, per essere già a posto, solo lasciava fuori la penna.
C’erano i fogli del calendario da poter usare, grandi e bianchi, sul dietro. Come scrivere sul dorso dei giorni e dei santi.
Bastava trovare un pezzetto di giornale, magari il cartoccio dei fagioli secchi, per avere le parole da copiare, sul tavolo della cucina, con la luce bassa.
Calligrafia.
Quello le piaceva: scrivere, senza sapere cosa, tornendo le lettere alla perfezione, con la stilografica che suo padre le aveva regalato e che era diventata un talismano. Di madreperla rossa, con lo stantuffo pronto a succhiare tanto inchiostro ed un pennino morbido che non grattava mai. Sui fogli del calendario filava liscio come l’olio: l’inchiostro brillava per un po’, poi si asciugava piano piano. Sì, bisognava stare attenti alle sbavature, ad appoggiare il braccio per avere ferma la mano.
Il suo era un lavoro d’impegno e precisione, quasi di cesello, che dedicava a suo papà lontano, l’assente innominato dalla mamma e imprecato ogni giorno dalla nonna.
Quasi era per far dispetto a lei che la penna diventava così cara.

Le ciabatte a pianellare sul pavimento dissero che la nonna adesso era sveglia.
Venne in cucina, vicino al lavandino e prese a sciacquare tre bicchieri che lì si erano lasciati, per non far rumore.
Le tue amiche vengono soltanto per bere l’acqua frizzante, cosa credi?
La bambina capì che non era giorno per rispondere e continuò a copiare in silenzio quel che c’era scritto sul giornale.

Forse non lo fece apposta, forse fu davvero un capogiro: la vecchia appoggiò forte la mano sulla spalla della bimba, scuotendola, improvvisa. La penna cadde, rotolando: il pennino staccato, il cuore d’inchiostro blu a fare macchia e schizzi tutt’intorno.
Peccato, mica l’ho fatto apposta, disse la nonna e voltò via, a cercare uno straccio per pulire.
La bambina non disse niente, cos’altro poteva fare?
Prese quel che restava della penna, la nettò sotto l’acqua che correva: lacrime blu dentro il lavandino; l’asciugò con la carta assorbente e l’avvolse nel fazzoletto buono, in un funerale silenzioso.
Prese il foglio del calendario, fermo circa a metà, poi lo girò alla luce, contro la finestra, per vedere a che giorno e a che santo era arrivata.
19 novembre, san Fausto martire.
Il nome di suo padre.