C’è nella mia casa, porto di mare senza sirene e babele di libri fogli e foglie, la stanza per i silenzi.
È una stanza di buon carattere: guarda la strada, che si apre in fondo, e, se solo si sporge, incrocia i colori del ginko biloba, l’ultimo a lasciare il giallo. In genere è quieta e sfoglia vecchie pagine.
Per ringraziarla di tante mute regalie, la accendo di ciclamini piccoli o di erica bianca, perché i fiori sono il mio modo di dipingere i pieni e i vuoti di gratitudine.
È l’unica stanza che io e il compagno della mia vita non dividiamo mai, per un tacito patto.
La usiamo in alternanza.
Nel resto della casa piace sentire la corposità della compresenza.
Lì, invece, si sta bene soli: la stanza tiene senza comprimere, diventa latte caldo se c’è freddo, diventa lavanda e menta se c’è malessere.
Una volta era la stanza eletta per ascoltare la mia musica, quella di cui neanche riconosco il nome, ma che so passo a passo, perché l’accompagno nel suo viaggio lungo la mia vita.
(Vivo nella suprema indifferenza per nomi numeri dati di qualsivoglia natura, io. Li vorrei scivolosi e malcerti… Fosse per me, anche noi cambieremmo nome, nelle nostre stagioni, e le cose… poi…)
Eppure, in questi giorni, ritirati e infittiti come una maglia di lana, persino la musica sembra far rumore.
La mia stanza lo sa e tace.
Offre una poltrona al cappotto, che è fatica riporre nell’armadio, e l’altra a me.
Sa che ho bisogno di tacere perché le energie tornino a fluire, le mani si scaldino, i pensieri si sgelino e il fare, sempre in combutta col dovere, lasci il posto a vagabondaggi non finalizzati, al perdere tempo, alle voci di piacere. Ah, poter dire e sentirsi dire “non c’è obbligo”.
Respiro.
Respiro al ritmo della camera. E l’ascolto.
Sembra che fermarsi sia questione di un attimo, il prossimo.
Da piccola tenevo il fiato più che potevo, perché doveva pur succedere qualcosa. Magari il fiato trovava altre strade; fluitava nelle vene?
Perdevo la scommessa e aprivo la bocca.
Adesso assorbo il canto della stanza silenziosa, in cui non si cucina, non si ripongono cose, solo si scrive senza monitor, solo si legge…
Ascolto l’anima del pavimento che risponde ai passi, il grattino del pennino sulla carta, così diverso dal suono secco della tastiera, che lascio tranquilla, perché si decomprima e mi saluti, al ritorno, senza ricordare il lavoro.
In questo silenzio, sto con il brusio dei linguaggi interiori, che lentamente affiorano come sgravati dai pesi. E cerco risposte morbide a quel filo di pensiero che, lento e interrogativo, trova le fessure del pavimento di legno.
La bicimongolfieravela è pronta.
Vorrei  fosse già sera.