(tragedia in due tempi e una riconciliazione)
atto primo

L’estate dei bambini, quell’anno, fu nel bel mezzo funestata dall’avvento della colonia.
Colonia spartiacque ideologico.
Le amiche spedite a Riccione, in privato odor di parrocchia, con un gruppo di vigilantes signorine del paese, all’ombra del don.
Io a passare il mare con la pubblica colonia del comune.
A Igea Marina.
Perché avevo fatto la tosse cattiva, d’inverno. Quella secca secca, con retrogusto sonoro d’organetto.
Bisognava, dicevano in casa.
Non si poteva fare come quell’anno, a Viserba, tutti insieme. La mia estate subacquea.
(Perlustrazione della fontana della pensione, fontana grigia con pesce rosso, caduta verticale, a testa in giù, per acciuffare il suddetto, salvataggio per acchiappamento di piedino emergente da parte del nonno)
Il nonno ora aveva lo stringimento di cuore, quel dolore forte al petto che chiamava le pastiglie col nome di gioco. Su Ninina, trentatre trinitrine tornavano da trento tutte trentatre trottando, canticchiava con me, dopo, perché anche il male diventasse filastrocca e io non avessi paura di quel disco bianco e piccolino, che, pallido come la terra, metteva sotto la lingua.
Non c’era modo di fare le vacanze di famiglia, ecco.
E se non era felicità perfetta, almeno andare con l’Anna e suasorella, dicevo io, coi preti insomma, a prendermi la benedizione tutte le mattine e a cantare prostrati nella polvere davanti al santo altaaaaaaaaaaaaar.
Questo volevo, ma mio papà macchè, sempre a fare le cose diverse.
Così, mentre miamamma e miazia cucivano i numeri rossi su ogni vestito, su ogni costume e persino sui fazzoletti, a me veniva la malinconia.
E barattavo.
Se sto a casa non scivolo più sul borotalco in bagno.
Se sto a casa non mangio più gli amici del sole.
Rinuncia grossa perchè quel trifoglietto dolce e brusco dallo stelo trasparente era quasi meglio della liquirizia e non costava niente, solo qualche scapaccione.
Le donne a testa china continuavano a puntare 3 , 1, 7 e a me non restava, allora, che giocare la carta del sentimento.
E se cado in una fontana?
E se mi fanno mangiare la minestra di verdura?
E se la sera mi viene il dispiacere?

Partii senza risposte, targata 317, con le donne di casa coccodrille che adesso piangevano giù dal finestrino della corriera. Fa’ bel Ninina, fa’ bel…
Ma la Ninina era inferocita e non sapeva più cosa dire fare pensare pur di castigare le artefici della partenza.
Sedile davanti, impettita, con la scrufna: occhi viperini sotto le sopracciglia a tettoia, non addolcita neppure dal vestito con le alette. Neanche a guardare chi saliva dalle frazioni e dai paesi vicini: che nella colonia rossa del comune quelli di piazza mica ci andavano, allora c’era da ripiegare sulle forze di campagna, sui figli dei braccianti che sudavano fra mietiture e sarchiature. Altroché mare.

Si arrivò col vomito, sotto un sole scottone.
Dopo un viaggio murato. Col magone muto, quello che cementa dentro i pensieri. Potevo dire, potevo fare…  E la testa piena delle canzoni urlate dai veterani della colonia: storie di briganti tristi che pensavano alla loro bella, di macchine del capo piene di buchi nelle gomme e di rumori, e di porte che si dovevano aprire per farci passare.

La colonia era una scatola da scarpe, col coperchio rovesciato davanti, pieno di sabbia polvere, con striature di catrame: un muretto a separare l’altra sabbia e un mare color cacchetta.
Caldo grigio dappertutto e odore di minestra di verdura.
Era pomeriggio: ci fecero andare nella sala dei bagni.
Una donna senza sorrisi era lì, vicino ad una pila ripiegata.
– Prima di sistemare le cose negli armadi, mettete il costumino: uguale per tutti, così in spiaggia vi riconosciamo.
La divisa. Un colpo al cuore. Un pagliaccetto a quadretti bianchi e rosa, con pettorina di pudore.
Arrivai ultima. Ultimo pagliaccetto raso terra.
Scarafaggio, grasso e lucido. Sotto la pettorina. A pancia in su. Un po’ nervoso.
Il mio urlo arrivò in cucina, scese in camerata, passò per la direzione e planò sui piedi della sorvegliante.
Per quel giorno l’orrido costumino rimase là.
Nessuno riuscì a convincermi del contrario.
Io, vestita di tutto punto, sotto l’ombrellone, a meditare una sussiegosa vendetta.