Remo Bassini è un narratore di storie, ma quando lo leggo mi vengono sempre in mente le parole del poeta Mario Luzi, che si rivolge alla sua poesia con un invito/imperativo categorico “Tu cantami qualcosa pari alla vita”.
Secondo me in un’osteria di Cortona, dove parcheggiano vecchi che ancora hanno occhi e chiacchiere taglienti, o in un bar di Vercelli, nebbioso e pieno di voci, Remo Bassini deve avere inoltrato una richiesta del genere, alla sua musa un po’ selvatica. Forse non le ha detto ‘cantami’, molto più probabilmente le detto ‘contami’, ma il contratto è riuscito, perché nei libri di Bassini, in tutti i libri di Bassini, c’è la ‘pienezza’ della vita, una pienezza conquistata con l’esercizio della vita stessa, con la fedeltà alla propria storia personale. Questa probabilmente era la clausola del contratto. Rispettata anche in Vicolo del Precipizio.

E’ un romanzo a molti ingressi, Vicolo del Precipizio: entrarvi significa conoscere un personaggio complesso, che stringe con i luoghi un rapporto intenso, fino a farli diventare interlocutori della propria vita. E’ Tiziano, quarantacinquenne, single e con amori pregressi e irrisolti, scrittore interrotto, che dopo un esordio felice, si trasferisce da Cortona a Torino, e lì non trova più la motivazione/condizione necessaria per continuare in proprio. Diventa il donatore di anima e parole ai libri degli altri, si fa sarto a pagamento dei racconti altrui, quello che, in gergo editoriale, si definisce ghostwriter. E presta le ‘sue’ storie agli altri. Non per generosità, ma perché le storie, spesso, non hanno né padri né madri, come i proverbi e le frottole, ma girano per strada e possono essere di tutti.
C’è un momento, però (nell’aggancio ad un fatto di cronaca legato a un personaggio del suo paese natale) che riattiva  la sua voglia di scrivere e di chiarire le sue zone d’ombra, di sciogliere i grumi di vita fossile che non è riuscito a stemperare nel quotidiano. Sono numerosi, questi grumi di vita fossile,  calcificati anche dal fatto che Tiziano vive qui ma pure altrove, pencola insomma fra due mondi, senza compiersi nell’uno o nell’altro:
– Cortona, in cui è nato, un paese a scala come un albero genealogico, e da cui è partito sulla scia del suo esordio editoriale, Cortona in cui torna velocemente, ogni tanto, per due giorni e due notti, a ritrovare padre e madre, amici e fantasmi,
– e Torino in cui è approdato, Torino che prima lo incontra e lo incanta, poi lo fa, ciclicamente, salire su un autobus alla ricerca di un pezzetto della sua Cortona, che è cielo e voci, campane e profumo dell’olio d’oliva sul pane, e volto duro dei vecchi che giocano a carte in un bar.
Ma la nebbia torinese, che protegge e fa schermo, manca a Cortona, come a Torino manca la piazza che diventa casa, che fa comunità, la piazza in cui stendere i panni all’aria, con gli amici.
“Penso che tutti, svegliandosi al mattino, vorrebbero avere due strade da poter scegliere: quella del silenzio (anonima, lei la strada, e anonimo tu, coi pesi che porti dentro) e quella sei sorrisi e dei racconti e delle confidenze a ogni angolo.” (pag. 62)
Qualunque sia la strada provvisoriamente scelta, è comunque certo che i luoghi sanno seguire.
Ecco perché …
entrare in Vicolo del precipizio significa  soprattutto entrare nei  luoghi, non solo nelle vite, anzi entrare nel corpo dei luoghi, capaci, come ogni organismo vivente, di persistere, di cambiare, di trasformarsi, insieme a cose e parole.
Il trasferimento (l’esilio, dice qualche lettore) non è recisione, neppure taglio che interrompe dolorosamente un rapporto, ma diventa l’occasione per scoprire quanto siano fluide e tenaci le radici sarmentose che non legano verghianamente allo scoglio, non chiudono orizzonti fra ‘due zolle’, ma lasciano andare, conservando però gli umori e i succhi del terreno di origine.
Non si perdono mai definitivamente gli spazi, a patto che si viva “SENTENDOLI”.
Per non perderli occorre sentirli, percepire con sensi lunghi e profondi la “forza dei luoghi”, al punto che non siamo noi ad entrare in essi, ma sono i luoghi ad entrare in noi… e a rimanere.
E qui mi viene in mente Meneghello: “La mente in esilio, per evitare che muoia. Esiliarsi da sé. Continuare ad esiliarsi ogni giorno. Per odiare e per amare… bisogna star fuori” (Carte, pag. 327)
E quand’è che sentiamo lo spessore dei luoghi?
Nella distanza, quando scopriamo che vi abbiamo appeso dei ricordi, dei pezzetti di vita e, osservando i luoghi, ce li andiamo a riprendere, ce ne riappropriamo.
I ricordi, direbbe Elia Malagò, sono la nostra “ombra ripresa”.
Ecco perché …
entrare in Vicolo del precipizio significa entrare nella memoria personale e corale,
– nei ricordi individuali che si allertano di fronte ad una fotografia o ad un viso, quelli che fanno dire “E pensare che sembrava ieri” o che “A un certo punto della vita vedi che restano solo i ricordi”. “Vanno coltivati i ricordi”
– in quelli che formano il tessuto identitario di un paese, quelli che costruiscono un abito mentale, il quaderno di voci cui attingere per sapere come si è stati, come si è vissuti nella vita bambina e nelle altre età che convivono in noi: quella degli amori spiati o vissuti, quella del lavoro e del disincanto…
I ricordi sono schegge che si accumulano e che aspettano di essere fermate con la parola per fare granaio, altrimenti si perdono.
Ecco perché…
entrare in Vicolo del precipizio significa entrare nella macchina della scrittura, per scoprire non solo il suo oggetto, le sue storie, ma per capire come un libro possa insegnare a raccontare le storie, ad esempio utilizzando – come in questo caso –  due narratori (un io narrante in prima persona e una voce impersonale e fuori campo che funziona come una lente puntata sul personaggio).
Significa anche entrare a contatto con un mondo, quello della scrittura organizzata, così chiamo l’editoria, che ha regole e segreti, meccanismi crudelmente ad incastro come ogni settore produttivo.

Facendo di tutti questi fili sparsi un unico mazzetto, possiamo dire che nel romanzo si muovono e si sovrappongono alcuni temi radice:
la persona, con i suoi buchi neri e i conti che non tornano né in amore né nel lavoro,
i luoghi anima-muniti, capaci di essere non solo contenitori ma interlocutori,
i ricordi porta-fantasmi e porta-pensieri, ovvero la seconda volta del cuore e delle storie ascoltate ad intarsio dentro la vita, frammentarie come possono essere i lampi della memoria,
la scrittura-tarlo, che accompagna come un vizio vitale e che, pavesianamente, serve per chiarirsi un’idea, senza consolare, senza levigare l’ortica.

Formano un quadrilatero mobile che rivela la grande confidenza di chi scrive non solo con la realtà e i fatti dell’esperienza, ma con l’ombra che vive in ciascuno di noi, un’ombra che chiede almeno una crepa di chiarezza.  Ma anche no.
“Come apparirebbe la terra se vi scomparissero le ombre?”, si chiede infatti Bulgakov…