Tanti sanno che sul monte Sipilo, in Asia Minore, c’era una roccia lavata da una sorgente.
Tanti sanno che la roccia era Niobe, un tempo.

Niobe, figlia di Tantalo e sposa di Anfione.
Niobe, celeberrima matrum, Niobe la madre fiorita di figli.
Felice e superba.

Sette figlie e sette figli.

Quanto basta per dirsi più grande di Latona, che non tarda a tuonare il suo odio.

Muoiono i sette figli e muoiono le sette figlie, ad uno ad uno, ad una ad una: le frecce di Artemidee Apollo, sicure nel petto.
Con le braccia livide, inutile scudo che non salva, ormai piccola e curva, Niobe piange il suo dolore.
Pallida, rigida, fredda: gli occhi spalancati, e il sangue gelato, e la lingua inutile.
Tutto di Niobe si fa pietra: il ventre orfano, le mani, il collo, il viso.

Solo gli occhi piangono, muti, e lavano la roccia del corpo.

Se fosse immagine, il dolore di questi giorni sarebbe Niobe.
Se fosse cosa, sarebbe pietra.
Se fosse radice, sarebbe un fittone, conficcato e immobile.<