Qui da noi, una volta, c’erano magrezze asciugate, quelle che spuntano ossute dalle spalle, prepotenti di ossa: non tengono la carne e neppure le lane. La pelle,  senza pieni, solo asseconda fosse, lunghe, alla radice del collo, scavate dai sospiri.
Vecchie magrezze sposate con il nero, di grembiuli e di gonne sovrapposte, lo scialle incrociato sulla schiena, a cancellare il seno.
Le calze spesse, anche d’estate.

Così era la donna con il nome strano.
Nessuno le aveva  mai visto il petto: i gomiti piantati nel costato a difendere o a nascondere, chissà.
Nessuno l’aveva mai vista mangiare. Non una pesca nelle giornate calde, la pesca che canta nella gola, sciroppando liscia liscia. Non una castagna che brucia fra le mani e inganna il primo gelo.

Mosca scura, con la testa aguzza, le ali aperte a spingere il carretto.

Ci sono mestieri  che chiedono le dita e corrono agili dietro al chiacchierino, inventano nodi, han confidenza con le cose fine: vivono d’ago, filo e pensieri bianchi.
Ci sono mestieri che chiedono le braccia: ne cercano le vene, ne vogliono i cordoni, ne succhiano la carne che non c’è.

La donna con il nome strano lavorava di braccia come un uomo.
Spostava casse su e giù dalla corriera, fra casa e casa guidava transiti di mobili e stufe, di quadri grondanti cristi e croci, di sacchi di terra per le dalie…

Ad ogni giro con il carrettino perdeva un po’ di donna, piallata come un legno.

Ma a chiederle del figlio… A chiederle del figlio si fermava, la bocca solo un po’ rotonda come in un bacio imploso.
– Sta beeeene sta beeeene – diceva con tante ‘e’ fresche di paradiso –  Lu l’è ‘l me cor, al me cor…
E si lisciava il petto col palmo della mano.

Ci sentivi il latte e un miele antico.