L’acqua è rimasta su, per ore, tenuta a bada da un cielo cinerino: gli si leggeva in faccia un rancore accumulato, da sospensione imposta e non voluta.
Poi di colpo, il livore si è disfatto: giù, gocce a corona, sul vetro, quasi un po’ ingiuriose.
E un senso lieve d’interna soluzione.

Piace la pioggia forte che si dice: non centellina più, né dilaziona.
Se ha da arrivare, arrivi: i giochi sono svelati.
C’è nulla, ormai, più da volere.
Se non questo sfuggire ad una obliquità.
Un trovarsi a chiedere catastrofi nel piccolo, rido fra me, obolo pagato al pendere precario.
La pioggia, il freddo vero, non truccato da un po’ di umidità, il buio alla sua ora…
Se han da arrivare, arrivino.

Si è tornati per l’argine, a salutare l’acqua con altr’acqua ancora.
E rivedere lavati certi borghi di costa, ai margini dei pioppi. (Con la pioggia, l’azzurro di vecchi  caseifici, crosta di verderame e calce, è  turchino vivo, da cartoccio di  zucchero d’un tempo)
E innalzare, ai lati della strada d’argilla, castelli d’acqua alta, che appassiscono scroscianti in un momento. (Pure la pioggia ha le sue morgane)

La terra, all’andata così dura, ora s’accorda all’acqua, si scioglie in goccia  e schizzo.
Cambia.

Piace l’umiltà della terra che si sfianca, mite.
Finché può, trattiene un filo, un guscio di lumaca, un sasso che luccica nel buio, poi lascia andare.
Apre le mani e s’ammolla.
Cedevolezza amica.
Tornerà ai bordi, dopo il suo viaggio d’acqua e vento.
Si riconoscerà terra in altra forma.

E noi?
Poter impararne, intanto, la docilità…