Il circo

Il circo arrivava improvvido e improvviso.
Magari d’inverno. O col soffoco, d’estate.
E non lasciava niente come prima, almeno nei bambini.
Manifesti con colori accesi e improbabili nomi altisonanti: l’odore farinoso della colla, fatta in casa e spennellata in fretta e in abbondanza.
Visi nuovi e capelli ossigenati, a comprare in bottega pane e mortadella.
Poi, nel prato della Marinella, un fungo di tendone spuntato in una notte, forse.
Con la bandierina in cima, a sventolare.
Di fianco, a volte, le gabbie coi leoni, pochi, con gli occhi addormentati e il sentore dei tappeti vecchi.
Il richiamo era forte e la musica già di pomeriggio arrivava a onde sussultorie, mentre l’auto passava per le strade annunciando meraviglie grandi per la sera.

Anche quel novembre fu così, quasi a scacciare malinconie da cimitero e le nebbie che ormai sfiatavano, il mattino.
Un circo in miniatura, le pareti tirate con le corde e le luci a rincorsa sull’insegna. Rosse e blu.
Stasera ci si va, disse il padre, tornando per la cena.
Suonava molto strana questa cosa, in una sera che era meglio stare in casa, la prima brina sui rami della siepe. La madre aveva gli occhi a punto di domanda, mentre allacciava il suo giaccone: la bambina già pronta sulla porta, persino col berretto. Le gambe impazienti d’aspettare.

La panca di legno era callosa. La gente rada rada.
Bisognava stare dritti con la schiena, senza un sostegno, senza un appoggio, come gli asparagi nell’orto, ma c’erano i pagliacci da guardare, quello piccolo e quello allampanato, così somigliante all’uomo dei biglietti e anche al ciclista che saltava su una ruota sola, da grillo con le antenne drizzate verso il cielo. E la contorsionista che stava tutta dentro a una valigia!
I leoni sono in ferie nei paesi caldi, disse il direttore, ma questo era già chiaro: sul prato non c’era nessuna gabbia, nessuna.
Se li saran mica mangiati, rise la madre sottovoce.
L’acrobata intanto scendeva a torciglione dal punto più alto della tenda, con i lustrini accesi sul costume: il cono della luce la fasciava tutta e lei ruotava, ruotava, appesa con un laccio a quella corda che il direttore muoveva giù dal basso.
A seguirla girava un po’ la testa, per la paura e per il collo teso.

Poi la ragazza toccò terra con la grazia dell’angelo che annuncia e la bambina si drizzò in piedi, a battere le mani davanti alla bellezza.
L’acrobata forse fu toccata dalla sua entusiastica accoglienza, uscì dal cerchio magico di scena e le si avvicinò per farle una carezza.
Forse sbagliò.
I ragazzi della seconda fila subito a fischiare e a urlare complimenti alle sue forme morbide e vistose.
La bambina invece vide il suo trucco sfatto, le calze a rete rattoppate con cicatrici scure e soprattutto un buco, un buco gigantesco nel costume, proprio sul fianco. Un buco vecchio e slabbrato,coi fili intorno, un poco sporchi. Un buco che parlava non di stoffa mancante…
Un senso di nausea improvvisa, come quando assaggi un boccone che promette ogni delizia e si rivela amaro.
E di colpo tutto si sgonfiò, senza più bellezza, senza più magia.

In questi giorni

In questi giorni, per non sentire le polemiche che ronzano attorno alle difficoltà che stiamo vivendo , ascolto musica.

La musica mi piace tutta, ma, quando ho voglia di dolcezza, vado a cercare un duetto della Norma che mi scioglie il cuore: questo qui https://www.youtube.com/watch?v=7X3h5lryx2U
E intanto penso a Bigio, uomo di Po cheaveva la pazienza del cercare, del chiedere soltanto a terra e a riva, per un vivere senza padroni e senza monsignori, fra gente con i nomi brevi e parole poche. Gente che chiamava con ‘om’ o ‘dona’, senza complimenti.

Bigio aveva un grande amore, oltre al fiume. Lo aveva scoperto all’improvviso, quando un vecchio grammofono, barattato con un tartufo grosso, gli aveva regalato la voce di una grande soprano.

E quella voce si aggiunse e colonizzò quelle che già amava: il lamento dei fagiani, che si sgraziano al fondo della macchia, il secco percuotere dei picchi, il fragore dell’ansa che succhia l’acqua in gorghi e mulinelli e poi la fa girare e la sbatte contro i tronchi di golena. Rauca.

Quella voce di donna esplose dentro la golena: era di vetro e di catena, alta su nidi e pioppi, alta sopra le anatre di passo.

E dentro c’era tutto: il vento e il ghiaccio, il fuoco e le stagioni, i mondi di margine e di fiume. Con una forza che non è d’accetta: l’accetta attacca, spacca e squarcia con un colpo netto, come la falce. E neppure è quella del ramo che resiste, che tiene al vento e al frutto, nella sua pazienza.

Era la forza che scioglie la fatica nel lento risveglio delle vene, che accoglie la voglia di piangere del mondo e la ferma nell’angolo dell’occhio, in lacrime bambine. La forza del bello in forma di dolcezza, amore che commuove e bacia dentro.

Anche di questa forza ora abbiamo bisogno.

Un abbraccio.

A volte tornano

C’è che le rivolte sono cose strane.
Nascono da un niente e il niente, d’improvviso, non è un niente.
E’ la vita che si mostra e che si dice, senza incanto.

La Rina non era mica bella. Neanche brutta, però.
Aveva le spalle larghe da rasdora, di una che non si tira indietro e si tiene tutte le fatiche addosso, il busto un tempo glorioso e adesso un poco sfatto, dopo i figli.
Ci stava così bene nella sua corte a porta morta: la casa di qua, con i servizi, e le bestie di là, col barchessone in mezzo, per gli attrezzi. Il Landini no, quello stava nel capanno, perché non si sa mai: vento, pioggia, e poi il motore ingrippa.
La terra sapeva prendere per dare e, adesso che le angurie erano finite, c’era da aspettare ancora un poco per il grano, nei campi là di dietro, da ripianare e dopo seminare.
Per quello bisognava che tornasse suo marito.
Al resto pensava lei, e con soddisfazione.
Pure le bestie ripassava col bovaro, ogni mattina, adesso che i figli ragazzi erano in collegio.
E a tempo perso preparava la casa per il freddo: gli ultimi pomodori in salsa, la conserva di prugne dentro le bottiglie, con la polvere bianca per farle un po’ durare, le verdure sott’olio e sott’aceto.. Anche le dalie aveva rinforzato, coi bastoni, per separare l’orto dal cortile,
Al pomeriggio restava solo da guardare le galline.
Se le teneva come un diversivo.
Le piaceva vederle in corsa, dietro i grani di frumento grosso lanciati in aria, a mo’ di pioggia.
Il grembiule ne teneva tanto e tanto lei ne avrebbe dato, insieme coi resti del radicchio, certo pane duro che ormai non si mangiava, un po’ d’orzo e le bucce di patate e di fagioli.
E’ il becco che fa buono l’uovo, lo sapeva.
E lei, le uova, le voleva gialle e grasse, non come quelle della Eda, che invece risparmiava anche sul mangime.
Lei sì che le sapeva ben tenere, le galline.
E ci metteva l’aglio nel pastone, e anche la cipolla, per cacciare i vermi dalla pancia, e l’aceto fatto con le mele.
Per questo suo marito gliene portava sempre una a casa, quando tornava dopo un viaggio.
Eh sì, una gallina era un bel regalo…
E stavolta tornava da lontano, l’uomo: da Recoaro, dove aveva passato le acque, dopo la stagione, quando i campi han già dato tutto e persino il padrone poteva riposare.
Due settimane con la camicia bianca a bere l’acqua che fa bene.
Come Giuseppe Verdi, lui lo diceva sempre.
Naturale che lei doveva stare a casa.
Mica si poteva andare in due. La casa, le bestie…
E poi là c’erano signori e donne fini: bisognava parlare bene l’italiano.
Lui sì, lui sapeva stare dappertutto. E dire che non era andato a scuola e a ben vedere non era niente bello. Aveva una gran chiacchiera, e le donne, si sa, ci cadono con niente.
Una volta nel taschino aveva trovato la foto di una vestita da gran dama.
C’era scritto qualcosa… A saper leggere, magari. Ma chiedere a un figlio non le sembrava cosa buona. E poi era passata.
Anche l’odore sulla giacca era passato. Profumo di violetta.
Comunque adesso ritornava.
Gli avrebbe fatto la frittata di uova e di cipolle, per la sera, che a Recoaro non la sapevano fare come lei.
E poi si sarebbe messa la camicia da notte che piaceva a lui, non di quelle grossolane della dote, ma quella leggerina, che pareva seta.
Pensava e guardava il gallo, intanto.
Quello, l’aveva scelto lei.
Piccolo e nero, con la cresta diritta e prepotente.
Come suo marito, che girava per la corte pettoruto, su quelle zampette corte corte, e tutto squadrava e tutto controllava, le mani sui fianchi come ali. Sempre in movimento, a dar ordini e a dire cosa fare. Il naso a becco, in aria, ché la testa non l’abbassava mai.

Pran fina la fritada, aveva detto. Visto che bella la gallina. L’è ‘na liurnesa.
Poi era andato a letto, girato sul fianco, verso il muro.
Lei gli aveva fatto una carezza e lo aveva cercato con il piede.
Lassa star, che pasar li acqui l’è na gran fadiga.

La mattina la Rina voleva ben vedere la livornese nuova. Bianca di latte.
Se la guardava e riguardava, la sua gallina bella, che girava nel pollaio tutta sola.
Poi, dal cespuglio di rosmarino, venne fuori il gallo.
La livornese gli andò incontro con le ali in aria.
Con la cresta tutta accesa e le piume gonfie di speranza,voleva la sua festa.
Il gallo la guardò e le girò le spalle.
La Rina si sentì la rabbia dentro: ehi, galet, ma s’et a stà a Recoaro anca ti?
Raccolse un sasso bello grosso e lo tirò contro il gallo.
Fece centro.

25 aprile

Lei racconta che era ragazza: sentiva qualcosa che cambiava e non capiva bene.

Una primavera a voce bassa e di sole sottile.
Con l’ombra dell’inverno a fare freddo, ancora.
L’inverno con i morti ragazzi, partigiani, ragazzi di lì, fucilati nel ghiaccio di un poligono, un poco più lontano.
Portati via dalle brigate nere nell’otto di dicembre, la festa dell’immacolata.
Il più bello preso mentre serviva all’osteria del padre. La moglie a vedere, con il gelo dentro e la bambina in braccio.
Messo sul camion, insieme col fratello, che poi s’era salvato.
E il padre che, al nome dei suoi figli, diceva sono io e voleva andare lui, al posto loro.
(Il vino che correva per la strada e sembrava già sangue in mezzo ai vetri e ai biscotti secchi)

Lei dice che un conto è perderli in guerra, ma vederseli prendere così, davanti agli occhi, dopo la Russia e l’Africa, e tanta Jugoslavia fatta a piedi… Così, per rappresaglia. Ché mica avevano ammazzato. Sabotaggio e tanta propaganda, questo sì. E l’aiuto a chi voleva star dall’altra parte, questo sì.

E si ricorda che al più bello piaceva portare il feltro sulle ventitré e se lo aggiustava con un colpettino.
Quando entrava nel forno, a cercare pane per l’osteria, incantava meglio di Clargabol, sornione e di battuta pronta.
Al vecchio Bigin, allora, che non rubava mai a nessuno, toccava alleggerire le infornate portate alla cottura, giusto per mettergli insieme qualche copia.
“Mi toccherà dire alle donne che il forno vuole la sua parte e se la brucia”, e fingeva di sbuffare un poco.

E si ricorda la faccia anche degli altri: ragazzi come ce ne sono tanti, belli pure loro, come si è a vent’anni, ragazzi da farsi una famiglia o tenersela ben stretta. Invece macché.
Erano quelli della radiolondra, di notte nel retro d’osteria, quelli – poi s’era saputo – delle riunioni nelle capezzagne al buio, incuranti dell’aereo Pippo che passava e teneva fermi in casa, con la carta blu a far da pelle al vetro.
(Una coda di bengala come di cometa e le bestie nelle corti, invece, a imbizzarrirsi)

Lei dice che, prima, sapeva e non sapeva.
Ché il suo moroso, il fratello che poi s’era salvato, non rispondeva a niente e spariva e non c’era modo di fargli dir le cose, neanche la sera quando l’aspettava fuori dall’ufficio per accompagnarla a casa: qualche minuto insieme a una promessa. E c’era così freddo che il fiato si faceva nebbia.

Sa di certo che era stato l’inverno delle bombe e della fame: il ponte del paese grosso già non c’era più, la chiesa con squarci da far pena. La gente sfollata, a cercare casa dove si poteva. Nelle stalle e nelle porcilaie, con le corti che aprivano l’uscio e non tenevano più nemmeno il conto.
I boschi dei pioppi avevano tremato ed era già febbraio, coi tedeschi sempre più cattivi, con Pippo che passava ogni nottata, i rifugi scavati dietro gli orti, lontano dai muri, coperti con le frasche.
(I nonni con il cuore in gola, ciascuno a pregare con la propria fede: avevano già perso ogni cosa, maledettalaguerra )

Poi era venuto aprile, dice: i giorni del venti e giù di lì.
Il 23 mattina gli americani erano vicini (cannocchiali sopra il campanile)…
E i tedeschi parevano impazziti e cercavano di passare Po: coi corach delle cove, con le botti e le porte scardinate, con le tavole di legno e gli assi del bucato, ché, i gommoni, i capi se li erano già presi.
Certi come bambini di occhi tondi, altri che entravano e prendevano.

Lei dice che nella confusione, nel correre a nascondersi e aspettare, era scappata a casa dall’ufficio e si era trovata un cavallo, proprio in mezzo a strada.
Grigio chiaro chiaro: tedesco e pareva figlio di nessuno.
Che colpe mai poteva avere?
Ebbe paura che lo facessero annegare e lo portò dentro il suo cortile, dietro la pila della legna.
Lo tenne nascosto per due giorni, poi lo accompagnò dagli americani.
Era il 25.
Si poteva piangere e ridere, insieme.
(per non dimenticare, in questi giorni bui)

Spirea

Vorrei saper raccontare la bellezza bianca della spirea in fiore, così minuta e delicata: un candore esploso in un attimo e quasi abbagliante.
Ricade a fontana con i suoi mazzolini raccolti lungo i tralci, rotondeggianti e fitti fitti come bottoni in fila indiana su una camicia da notte troppo pudica.
Pare impossibile che un ramo sottile possa reggere tanta generosità, ma è il nome stesso a suggerire levità.
Spirea: poco è più leggero di un respiro.
Aria che diventa colore.
Senza peso.
Forse bisogna essere così in questi momenti: lasciarsi portare dai giorni, un po’ tutti uguali, come la spirea sui rami, soffiando via i pensieri troppo pesanti.
Buona spirea a tutti

Gesti&mimose

Il sette marzo, la sera, arrivava da Mantova, con la corriera azzurra-blu di Paviani, un grosso involto di rami di mimosa, legati con lo spago e protetti da un cannicciato un po’ scomposto.
Miazia Iris andava in bicicletta a riceverlo, lo portava a casa e lo appoggiava sul divano dell’ingresso. Non si poteva aprire, solo guardare con curiosità, pregustando il dopo.
Bisognava aspettare che arrivassero le donne. Allora, in cucina, si scioglieva il pacco sulla tavola grande e ne usciva una luce gialla e un po’ ammaccata, al profumo di verde e di spezie. Piumosa.
C’era da risvegliarla, la mimosa, dopo il suo lungo viaggio da Sanremo, rianimarla con mani leggere, aprirne i rametti e ripercorrerne le foglie seghettate e chiuse, aprendole fra indice e pollice, per pettinarle bene. E poi da dividerla in piccoli ciuffi, per il giorno dopo, stretti da un nastro rosso.
Io ne passavo un tralcio sulle guance, come uno spolverino e raccoglievo con cura i grani caduti, su un piattino.
Era un lavoro d’allegria.
La mattina seguente, la Rosa miamamma, la zia, la Flora, la Len, la Diallai e altre ancora partivano con cestini ad anfora dal manico lungo e sottile, bianchi e intrecciati. Bussavano ad ogni porta, già sapendo quali si sarebbero aperte e quali sarebbero rimaste chiuse.
Un gesto semplice, per dire ‘ci siamo’, nel segno di una gentilezza in forma di fiore e di memoria. Da rinnovare ogni giorno come dignità e consapevolezza.

Oggi non ho mimose in casa, ma ne conservo la lezione: i gesti contano, come le parole, specie in questi giorni così difficili, che dobbiamo cercare di rischiarare, in ogni modo.

Piccolo elogio della misura

Me ne sono stata zitta in questi giorni.

Ci sono state troppe valanghe di parole, ondate di immagini che hanno fatto rumore, aggiungendo lievito alla paura, in qualche caso arrivata al panico.

L’informazione è necessaria, ma credo vada ragionata, non per omettere o semplificare ma per restare ‘vicina’ alla dimensione reale delle cose.

Anche la paura è necessaria, ma solo per trasformarsi  in prudenza. Il contrario della paura può diventare sventatezza e anche quella non fa bene.

La  paura  è un sentimento che ci accompagna da sempre, perché non siamo eterni e neppure perfetti. Si tratta di costruire con essa un patto di convivenza, per assegnarle il suo posto dentro i giorni. Senza esagerare. Io le ho dedicato un Qui come altrove.

Qui come altrove, c’è la donna che alleva le paure.
Le accoglie piccoline (ché, sul nascere, sono solo spine, granelli che pungono la pelle), poi le cresce con rara dedizione. Le rassetta, precisa, ogni mattina, toglie eccessi di panico e speranza: le paure han da restare tali, senza sfrenarsi in esuberanze (…). Accade ogni tanto che la paura grande si gonfi e perda la misura, come certi funghi che spugnano nell’ombra e torcono il cappello in forme strane.
Allora capisce, la donna, che è tempo di fare pulizia: il piccolo va spazzato via, il poco ridotto a segatura, per regole d’ordine e di gerarchia.
La  paura grande viene presa in cura e rimessa al suo posto dentro i giorni, infilata fra i piatti e i bimbi da lavare, perché ritorni nei ranghi della vita.

 

Fratelli

Se le storie avessero un doppio si specchierebbero a rovescio, una in faccia all’altra, identiche e contrarie, come quelle dei due fratelli.
Stavano nella casa dei pioppi, i pioppi della neve in primavera, quella che le vecchie si filerebbero, se i piumini fossero cotone, per copertine leggere.
I pioppi a mano aperta stavano fra la campagna e la corte, fra la corte e il caseificio, quasi a mettere ordine pure nei lavori: al Barba il latte da cagliare in grana, al Vecchio la terra da guardare.
Solo che, a far formaggio, il latte si riceve all’alba, c’è da faticare anche se un uomo aiuta, ma dopo non si sta a guardare, ci si decide a far qualcosa.
Così il Barba, una volta in piedi, di tempo ne aveva e faceva partorire le bestie, e guardava le api, sistemava la legna, zappava l’orto e aiutava il Vecchio, perché il Vecchio, la giacca, mica la levava.
Se è per questo, neanche domandava, ma aveva un suo modo di non chiedere così bello che arrivava a segno.
“Ah, tempo di pioggia,- diceva – se i covoni fossero fatti, tutta fortuna…”
“Se c’è da farli, si faranno”- rispondeva il Barba e prendevano la strada di campagna, il primo a testa in aria, il secondo a cercare per terra la cicoria.
“Ma quante, quante ce n’è quest’ anno, – diceva il Vecchio a guardar le spighe già tagliate – guarda guarda…se se ne accorge la mia schiena…”
“Se sono tante, si raccoglieranno,- rispondeva il Barba, che si toglieva il gilè – Te, metti la schiena all’ombra.”
Sotto la pianta di susine, il mal di schiena stava quieto.
Il Vecchio guardava in su.
“Certo le nuvole son più svelte delle braccia…Bisognerebbe fare presto.”- sospirava.
“Se c’è da far presto, si muoveran di più ”- il Barba non s’asciugava neanche la fronte e drizzava le spighe e le legava, in gara con il cielo.
Alla prima goccia il Vecchio dava l’annuncio, perché stava attento, e , coi covoni che riposavano al sicuro, stretti da un giro di salice, tornavano in corte.
“Certo è fatica anche guardar sempre in alto” diceva il Barba, per dare soddisfazione al Vecchio.
E si ringraziavano, sulla porta del caseificio.

La vecchia del corredo

C’è una vecchia che vive da sola, qui.
La sua casa fa angolo e strada: trattenuta nei muri, fra ricami di chiocciole e muschio, libera il fiato nel giardino di siepi e peonie.
Tiene, la vecchia, un baule, col corredo a orlo giorno, cifrato di pieni e di vuoti.
Non sposa, la vecchia sfoglia il corredo come l’album del tempo: da strati di carte sottili escono lenzuola dal risvolto prezioso, tovaglie di tela buona, camicie lunghe di pelle d’uovo, coi bottoni davanti, per la grazia di carezze leggere.
La vecchia scuote un poco i cristalli d’odore, cambia le spighe e ripiega le cose, sui solchi certi.
Ma, una volta in un anno, quando il sole è proprio sicuro, perché il vento storna le nubi, fa il bucato grande… e il corredo ondeggia sul filo ….. e si gonfia… e il giardino fiorisce di pagine bianche.
Chi passa vi legge parole mai dette, bisbigli solo sognati, promesse non sussurrate, segni di corpi che non si sono trovati, in un baleno d’amore.
Chi passa segue con gli occhi le mani di vecchio uccello, in corsa a spianare ogni piega, a stirare sul filo la vita che non è stata.

 

E’ arrivato

E’ arrivato.

A cavallo di una nebbia sottile che si sgarza piano piano per lasciare posto a un sole riottoso, stamattina.

E’ una lavagna bianca, quest’anno nuovo, doppio nei numeri che fanno pensare ad una giovinezza da vivere due volte.

Cercheremo storie nuove e parole leggere per questa lavagna, ma anche pensose, perché attraversare l’esistenza pensando è privilegio e condanna di noi umani.

E allora appenderemo ai pensieri la volontà del fare e dell’esserci,  per farli camminare nella realtà e portarli a fiorire, i pensieri, possibilmente col profumo dei gelsomini.

Buon anno, amici che passate di qua.

Natale

Aspettando che la tavola si animi, guardo il sole di oggi: ci dice tante cose.
Tutte belle.
Il 25 dicembre tanto tempo fa era il compleanno del Sole Invincibile, poi la Chiesa ne fece la festa della natività “del Sole di giustizia sorto a Betlemme”, di Gesù.
Una Festa religiosa e astronomica insieme, quindi, che vede la luce vittoriosa sul buio… Una luce bambina, che esce dal giorno più corto tanto forte da durare un poco di più.

La festa, invece, questa pausa del tempo in cui il fare tace, durerà un giorno soltanto e volerà via dalla gabbia del calendario col battito d’ali, veloce e impercettibile, di un colibrì.

Eppure anche di ciò che passa velocemente si trattiene qualcosa.
“L’amore imparerai dalla farfalla”, dice Sa’di, poeta persiano del 1200, nel suo roseto.
La festa che passa lascerà spazio ad un’attesa lunga un anno, che ne rinverdirà il desiderio e il progetto, traccia o vuoto da colmare con altri bagliori.

Cercheremo di conservarne ricordo e parole.
Perché ricordi e parole sono persone che non ci lasciano mai.
Sono doni.
Come è un dono la canzone di Vinicio Capossela. che faccio diventare il mio augurio grande.

E’ arrivato il nostro dicembre
di luci e di attese
di comignoli e calze appese
in una stazione ovattata di neve (…)

E’ arrivato guaendo
con una stola di cani randagi
ed una scatola di cerini
e lumini accesi.

Sante Nicola ci ha portato
in dono le parole
per parlarci e scaldarci il cuore
che povertà non sapersi parlare
e vedersi passare
vicini e muti
chiusi nel rancore
La pioggia si è fatta neve
e non ferisce ma bagna
e come manna morbida
ci consola…
Sante Nicola
ci ha portato parole incartate
e scritte e parlate
per dircele davvero,
queste parole d’amore

Nel silenzio che ci aveva vinti
silenzio di anni….
per QUANTO freddo e ghiaccio
ci fosse nel cuore..

Sante Nicola ci ha portato
in dono le parole
per spiegarci e scaldarci
come castagne e vino
a tenerci vicino (…)
Sante Nicola ci ha portato in dono
le parole per scaldarci e trovarci ancora

BUON NATALE E BUONE PAROLE A CHI PASSERA’ DI QUA.

La Sibelia

S’avrebbe voglia di parole da infilare con il refe, per la Sibelia: perline da fiera per farle una collana luccicosa.
E poi di parole tonde, così corrono meglio e finiscono fra le assi del pavimento e nella catena del pozzo, a scricchiolare e a cigolare, per un po’.
Parole con la musica dentro, magari con l’accento in testa, come un berretto: ché han da suonare chiare e mettersi in rima a far le buffe, in ogni angolo della corte.
Si vorrebbe cercarle nelle stie delle galline, dove restano certe piume di muta, che sono sospiri di chioccia.
O sulle creste dei pioppi, quando le foglie si fanno di vetro al primo gelo e crocchiano di galaverna.
Perché la Sibelia era la vecchia dei bambini.
Con gli occhi inutilmente azzurri.
E parlava soltanto a filastrocca: nella sua bocca i giorni della merla, il cattivo tempo, il grano, i santi del paradiso e i fagioli finivano in cantilene ripetute mille volte, a coprire ogni buco di tempo con lo stesso rammendo.
Perché la Sibelia era la vecchia dei bambini.
La vecchia dei bambini, dentro l’aia.
Piccola e ossuta, con le tasche piene di semi di zucca, bruciacchiati nel forno.
Mai sposa, mai madre, mai niente, solo a rancurare i figli di tutti nella corte, perché le donne stessero quiete in campagna d’estate e nella stalla o al telaio d’inverno: senza la paura delle zampe dei cavalli e dell’acqua ferma nell’abbeveratoio e dei matti che portavano via le creature.
La Sibelia sempre lì.
A cercare coi piccoli le uova fra le frasche, le tane dei grilli e dei rospi del signore.
A fare il verso del tacchino e del cuculo, a recitare le fole della scopa e della farina, dell’acqua e del fuoco e poi le canzoni con il fischio del vapore e la spada insanguinata.
A passare il calendario alla sua maniera, aspettando la stagione buona…Par santa lùssia un cul ad gussia e par nadàl un pass ad gal.
Senza crescere mai, anche se i denti non c’erano più e la bocca fioriva all’indietro.

Ma le parole hanno solo bisogno di un filo di suono e di testa leggera.
E così, quando per san martino la trovarono riversa sul corach, a testa in giù nel cesto, stecchita come certe zampe di faraona, coi semi di zucca a far da lacrime intorno, tutti pensarono che la Sibelia stesse cercando, in mezzo ai pulcini, un pezzo di filastrocca, un pio pio scappato dalla catenella…
Per colpa del vento.

C’è che nevica!

Selvino è un vecchio. Abita nel paese più in là, quello delle due fedi e delle due chiese. Ha spostato tanta terra con le mani e non ha molte parole.

Per avere il tempo di cercarle, si ferma su una lunga e la ripete sempre, come se fosse una briciola per i passeri.

Mi ha detto una volta che i suoi, da bambino, lo avevano prestato per un po’ a della gente con la terra, perché lavorasse e mangiasse in quella casa, naturalmente. Tornava ogni tanto con la corriera blu, che lo metteva giù all’incrocio, naturalmente.
La prima volta, tornò dopo un mese,  una sera che c’era la neve e all’incrocio un odore di fritto buono, quello dei pincini che si fanno in casa a salutare una nevicata. Un po’ di farina bianca acqua e sale e magari un velo di zucchero…

Il bambino pensava, naturalmente…
Se fossero a casa mia, i pincini, sarei capace di mangiarne cinque. Ma ci dovrebbe essere lo strutto in casa, e la farina bianca…Invece in casa c’è solo l’acqua per la polenta…
E camminava, naturalmente …
Se fossero a casa mia, i pincini, sarei capace di mangiarne dieci (perché la strada nel freddo mette appetito…).
E l’aria era grassa di fritto dolce e di desiderio.

Erano proprio in casa sua i pincini, perché la madre aveva barattato due uova per un po’ di farina bianca e di felicità.

Sugoli o saba?

I freddi non sono tutti uguali.
Ad andare in bicicletta si riconoscono bene, nelle gambe nude.
C’è quello del mattino di settembre che formicola nell’aria: cerca la pelle, per il gusto di sentirla fresca, ma basta il riparo di una strada a imbuto fra le case. Si stempera ed è ancora sole.
Poi ad ottobre c’è quello frizzantino che conosce le rotte del vento: batte insinuante a media altezza, giusto per infilarsi nelle maniche. Prende in giro i bottoni (che non difendono) e li umilia. Si ferma sulla schiena, come una placca d’argento. O una mano d’acqua di Po.
Ma quando sale dal basso, a novembre, e sembra un fiato di terra e di buio, allora il freddo punge gli occhi e porta li putini, lacrime bambine, amiche di magoni (mai risolti in pianto) e raffreddori, trucioli di lucciconi che non scendono, non scorrono, ma si arricciano ai bordi. Vetrini frantumati a orlare gli occhi.

Oggi è tempo di putini. Lo si aspettava, doveroso.
In casa, con un cielo tisico prostrato nelle pozzanghere, saluto il freddo con un bottiglione di mosto: uva americana, preparato a settembre e tenuto a parte per le occasioni grandi.

E’ bello il mosto rosso: è l’anima calda dell’uva. Ora c’è da decidere…
Accoglierà la farina e lo zucchero per cuocere piano? Sarà dunque un sugolo di breve vita, dolce scacciamali, scacciapensieri, scacciadolori solo per stasera?
O si innamorerà del fuoco, resterà ore a stringersi nel rame per essere saba che aspetta la neve, vincotto che sa di secco e di umido, di radice e di corteccia, giulebbe capace di perdurare?

Chi vuol esser lieto sia.
Il sugolo scotterà, oggi, nelle ciotole blu.

Pensieri in fuga 30.

Piace andare per paesi e per strade di mezzo. Fra canneti fossi e case sperse, senza necessità se non di occhi nuovi.
E’ tra-vedere fra il prima e il poi, come il guardare fra i fili delle tende, diradati con le mani.
E’ scoprire l’anima sciolta del cielo nell’onda ritardataria degli ultimi storni, che si slarga e si rapprende, stormo di briciole vive.
E’ capire che anche l’acqua più ferma respira.

C’è una strada parallela alla grande, trenta metri più in mezzo.
Il canale ha pareti di alberi, verso la Bonifica.
La nebbia arriva (non sai se dall’alto o dal basso, ma certo, arriva).
E sbatte contro i muri, a cercare un punto di fuga.
E rotola, rotola a palla sull’acqua, fra sbuffi e scoppi silenziosi.
Si ferma e ristagna, compatta.
Nebbia seduta allo specchio.
Cancella cancella.
Dei pioppi, che si stanno spolpando, resta solo un pennacchio di ruggine, là in alto, sospeso come la memoria.

Poter galleggiare sulla vita con l’orgoglio dei pioppi nella nebbia …